Impiccato.

Quel corpo era appeso inerte, sembrava una bambola di pezza, i suoi arti erano ricoperti di sangue. I suoi occhi, cuciti da fili logori, si aprirono con un suono di carne spezzata. Mi fissava. 

Sangue.

Quando mi risvegliai non ero più nella mia stanza, all’ospedale o in qualunque altro posto. Ero a casa. Nella casa in qui avevo trascorso la mia  infanzia insieme a mia nonna. Camminavo nella penombra, sola. Cercavo qualcosa ma non vedevo niente, non sentivo niente. Era come non muoversi, anzi, sembrava che tutto si spostasse tranne me. Non ricordo con esattezza quegli attimi, l’unica cosa che so è che mi sembrarono molto, molto lunghi. Aggirandomi per i labirintici corridoi riaffiorarono in me strani ricordi: ricordi che non avrei voluto ritrovare...

Poi, all’improvviso, Intorno a me apparvero delle bambole, tante tante bambole. Mi fissavano con quello sguardo vuoto; letteralmente, le bambole non avevano gli occhi. Passavo fra loro e avevo la netta sensazione che quando non le vedevo si girassero verso di me. Avevo ragione. Una di loro mi prese per il collo e in quel preciso istante tutte le altre caddero su di me. Ero bloccata. Quella che mi aveva preso per il collo iniziava a stringere. E a stringere. E a stringere. I miei occhi iniziarono a chiudersi. Intorno a me incominciai a vedere delle macchie rosse. Stavo per chiudere gli occhi. Stringeva. Cominciavo ad ansimare. Stringeva. A non respirare. Stringeva. Poi parlò:

“Gioca con me”

Ora i loro occhi non erano più vuoti, sanguinavano.

Mi risvegliai con un urlo, ma purtroppo non ero tornata indietro, ero nella camera da letto della casa. Mi alzai. Perché stava succedendo a me? Cos’avevo fatto per meritarmelo?! 

“Lo sai”

Sobbalzai. Mi girai. Guardai intorno a me, ma non c’era nessuno. La stanza era buia e fuori era notte fonda. Che ore erano? Il tempo lì non passava. Trovai una candela e dei fiammiferi. L’accesi. Mi incamminai verso la porta della stanza e appoggiai l’orecchio al legno gelido; sentii dei passi. La cera bollente della candela colava sulle mie mani. Rimasi lì per degli attimi, terrorizzata. Aprii la porta. Dietro di essa vidi un lungo corridoio. Non volevo uscire da quella stanza, qualcosa mi bloccava: la paura. Avevo paura. Paura di scoprire ricordi dimenticati. Paura di SCOPRIRE COSA AVEVO FATTO. Feci un lungo respiro e andai.

Camminavo lenta e la fioca luce della candela riusciva a malapena ad illuminare l’ambiente. La cera scivolava rapida sulle mie nocche. Dietro di me c’era qualcosa, lo sapevo, ma non mi voltai mai. Sentivo il suo fiato sul mio collo. Cercavo di andare più veloce. Di sfuggire a quella COSA. Non voltarti, NON VOLTARTI mi ripetevo. Il mio respiro si fece sentire. La luce della candela cominciò a tremare. La cera cadeva a goccioloni. I miei passi rimbombavano nella casa. Correvo. Stavo corredo. La cera bruciava sulla mia mano. Iniziai ad ansimare e sentivo qualcuno, qualcosa che mi seguiva. Corri! Quello era il mio unico pensiero. Bruciava. Corri, CORRI! La candela tremava. Tremava. TREMAVA. Si spense.

Respiravo lentamente ed ero di pietra. La candela fece cadere la sua ultima goccia. 

Sentii il dondolare di una sedia. Si levò nell’aria odore di carne morta. Il legno marcio strofinava lento sul pavimento. Mi fece gelare il sangue nelle vene. Mi girai molto, molto lentamente. Dopo averla vista, mi cadde la candela...

Nella penombra, in una pozza di sangue, si dondolava il cadavere di una donna. Aveva la testa china. Le sue mani erano scheletriche. Aveva un vestito logoro che gocciolava, alzò la testa con uno scrocchio. Quello che vidi non lo dimenticherò mai.

Mi risvegliai per l’ennesima volta in quella camera, intrappolata nel tempo. Non sapevo cosa fare, dove andare. Cosa mi stava succedendo? Mi strinsi forte fra le mie braccia poi sentii un dolore acuto ai gomiti: sanguinavano, i miei gomiti perdevano tanto sangue da riuscire a vedere l’osso. Mi distesi nel letto e fissai il soffitto sospirando. Qualcosa mi afferrò in quell’attimo alla caviglia e mi trascinò sotto il letto. Cercai di liberarmi, di sfuggire da quel mostro. Ma non ci riuscii. 

Mi ritrovai in una stanza vuota a parte qualcosa.

Impiccato.

Quel corpo era appeso inerte, sembrava una bambola di pezza, i suoi arti erano ricoperti di sangue. I suoi occhi, cuciti da fili logori, si aprirono con un suono di carne spezzata. Mi fissava. 

“Perché?” mi chiese con una voce fioca.

“Perché l’hai fatto? Perché mi hai impiccato?”

Ero gelida e continuavo a sanguinare. Cosa stava dicendo quel corpo? Io non avevo ucciso mia nonna. No. Non era possibile. No. 

“Nonna”

Mi sono appena svegliata. Questo incubo mi tormenta tutte le notti. Tutte le notti mi taglio i gomiti. Tutte le notti lo scrosciare della sedia a dondolo mi perseguita. Ed ora sono qui, a raccontarvi questa storia, dalla mia camera imbottita del manicomio.

Raffaele D. P. 2B